San Daniele Comboni 2018

Daniele ComboniUun binomio indissolubile: Comboni e l'Africa.
Padre Antonio Furioli MCCJ – Verona, Casa Madre dei Missionari Comboniani,
10 ottobre 2017, in die natalis Patris Fundatorisque nostri Danielis Combonii.


Daniele Comboni, debilitato dalle fatiche e dalle ricorrenti febbri malariche, nel 1879, due anni prima di morire, fu costretto a rientrare in tutta fretta in Italia per ristabilirsi in salute. Ma voleva ritornare in Africa appena possibile, perché sarebbe stato un disonore per lui morire lontano dalla sua patria di adozione e dal suo popolo di appartenenza: «Me erubescebam in Europa mori – arrossii a morire in Europa» così egli scriveva a P. Janseen, fondatore dei Padri Verbiti. Fece testamento, certo che lo attendeva, ormai vicina prossima, la morte e ripartì per il Sudan, da dove questa volta non avrebbe fatto più ritorno. Si spense a Khartum il 10 ottobre 1881 alle 10 di sera, ad appena 50 anni. Nel 1831, precisamente l’anno in cui Comboni nasceva a Limone sul Garda, il grande filosofo tedesco Hegel, aveva sostenuto che l’Africa era un continente senza storia. Era l’espressione della più totale mancanza di conoscenza, oltre che di ogni considerazione, che si aveva allora per l’Africa, questo continente che pur essendo geograficamente il più vicino all’Europa, ne rimase, fino alla seconda metà del XIX sec., anche il più lontano.
Gli Europei e gli Arabi raggiungevano le sue coste solo per il commercio degli schiavi e dell’avorio. Esisteva già l’immagine stereotipa dell’africano, rappresentazione universale dei rapporti bianchi-neri. L’africano era lo schiavo fedele e docile che nutre per il suo padrone affetto e riconoscenza, come descritto nel celebre romanzo «La capanna dello zio Tom». Ad ogni modo era sempre considerato come un essere inferiore al servizio dei bianchi, e la sua patria, l’Africa, la terra di nessuno, finché non vi arrivava la guarnigione militare di qualche potenza europea a dichiarare chi ne fosse il padrone legittimo. Arrivato in Africa nel 1858, con la spedizione missionaria di don Mazza, l’istituto di Verona dove aveva maturato la sua vocazione missionaria, nelle lettere che scriveva a suo padre Luigi, Comboni si firmava «il servo dei neri». Gesù Cristo definendo la sua missione affermava: «Io non sono venuto per essere servito, ma per servire: io sono in mezzo a voi come colui che serve». Mc 10,45. E nel 1873 Comboni così dichiarava: «Il primo amore della mia giovinezza fu per l’infelice Nigrizia, e lasciando quanto per me v’era di più caro al mondo, venni or sono sedici anni in queste contrade […]. In seguito l’obbedienza mi richiamò in patria, data la cagionevole salute. Partii per obbedire, ma tra voi lasciai il mio cuore […]. Ritorno fra voi per non più cessare di essere vostro […]. Il giorno e la notte. Il sole e la pioggia, mi troveranno ugualmente e sempre pronto alle vostre necessità: il ricco e il povero, il sano e l’infermo, il giovane e il vecchio, il padrone e il servo, avranno sempre uguale accesso al mio cuore. Il vostro bene sarà il mio, le vostre pene saranno le mie. Io prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il più felice dei miei giorni sarà quello in cui potrò dare la vita per voi».
 
L’ultima lettera di Comboni, scritta 6 giorni prima di morire, porta la misura e il sigillo di questa fedeltà: «Io sono felice nella Croce che genera il trionfo e la vita eterna». In un’interpretazione originale della Passione di Cristo, un poeta di origini africane così scrive:
«Gesù doveva morire,/ la debolezza s’era impadronita di lui,/ tuttavia doveva salire il Monte Calvario/ con due travi di legno sulla schiena./ Cadde, si rialzò./ In quel momento si trovò a passare di là un negro,/ Simone di Cirene,/ un negro forte […]./ Si trovò a passare di là/ e guardò la scena come solo i negri sanno fare:/ […] gli dissero: prendi la croce e portala […]./ Simone prese la croce dalle spalle del bianco Gesù […]/ corse con essa […] e danzò fino a quando non ne poté più,/ prima di riconsegnare la croce al bianco Gesù […]./ E da quel giorno ogni volta che una croce/ è troppo faticosa a portarsi,/ quando un carico è troppo pesante per i bianchi,/ essi chiamano un negro a portarlo./ E allora noi danziamo e cantiamo,/ battiamo il tamburo e suoniamo l’arpa./Abbiamo le spalle larghe e possenti,/portiamo la croce […]./ Ci carichiamo di crimini, ci carichiamo di peccati, /e aiutiamo tutti i bianchi a portare i loro peccati».
Ma questa volta è un bianco, Comboni, a portare la croce dei Neri, e senza mai più restituirla, anzi fino a morire su di essa. «Guarderanno a Colui che hanno trafitto» Gv 19,37. Oggi noi guardiamo a Comboni per percepirne le intuizioni, gli ideali e i sogni missionari. Ma quale è stata la vera ragione che ha fatto del Comboni, il servo degli schiavi neri, il Padre degli Africani? Ce lo rivela lui stesso nell’introduzione al più importante dei suoi scritti: ‘Il Piano per la rigenerazione dell’Africa’, i cui punti vennero dall’alto come un’ispirazione, mentre pregava sulla tomba di S. Pietro in Vaticano il 18 settembre 1864. Parlando di se stesso, così scrive: «Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose con il lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della fede, e scorse colà una miriade di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia». È la fede che compie il miracolo e l’Africa contemplata alla luce che piove dall’alto, cessa di essere la patria dei dannati della terra, dei condannati a morte, per diventare l’amata Nigrizia, l’unico amore della sua vita, «al cui incontro anelavo con maggior ardore con cui due fervidi amanti sospirano il giorno delle nozze». Colei che si è impadronita del suo cuore, sposa sempre amata, sempre cercata, anche se in dote questa sposa austera gli avrebbe portato arsura, febbri, itinerari spossanti, malattie e morte. Comboni l’ama affinché essa viva, affinché l’Africa possa essere rigenerata a Cristo Gesù.
 
La fede ha dato a Comboni un cuore e degli occhi nuovi, e così egli scopre in Africa una miriade di fratelli e sorelle, essi riproducono l’immagine dell’unico fratello Gesù: sono lui stesso. Paolo VI a Bogotà il 23 agosto 1968, dinnanzi a una massa di poveri campesinos sorprese tutti, quando pieno di emozione esclamò: «Voi per me siete Cristo». Gli Africani erano per Comboni Cristo stesso e fin qui non c’è nulla di nuovo, dal momento che è stato proprio lui ad affermare: «Ero affamato, ero assetato, ero nudo, ero in carcere»… e Comboni integra il testo di Matteo: «ero un povero schiavo nero e mi avete rigenerato’ … qualunque cosa abbiate fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me». Mt 25,35-40. Comboni sente che non può più separare il suo sguardo, il suo amore per Cristo crocifisso, dallo sguardo e dall’amore per gli africani. Cristo ha voluto identificarsi con i più poveri e abbandonati, con gli ultimi, con gli scarti del mondo e Comboni sa riconoscere Cristo, servirlo e amarlo nei più poveri, negli Africani, perché privi della loro dignità umana; e perché mancava loro il bene supremo della fede. E allora, come egli scrive nel ‘Piano’, si sente spinto da quell’amore acceso alle pendici del Calvario, ad andare in quelle terre, tra quella gente, per stringerla tra le braccia.
 
Nel Vangelo troviamo questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a una perla di grande valore; quando uno la trova, va e con gioia vende tutto quello che ha, poi torna e compra quella perla». Mt 13, 44-45. Comboni ha 18 anni quando scopre che il suo tesoro, la sua perla preziosa, si trova nascosta in quel campo, che è il vasto cuore dell’Africa. E da allora, con un giuramento di fedeltà pronunciato ai piedi di Don Nicola Mazza, tutta la sua vita sarà un continuo spendersi per amore dell’Africa. Quando dopo vari tentativi segnati da ben 46 lapidi di missionari morti lungo il Nilo o lungo le vie delle carovane che portavano a Khartum, il Vicariato dell’Africa centrale fu abbandonato. Comboni non si dà per vinto e presenta a Roma il suo Piano. Inizia una serie di viaggi nelle capitali europee per cercare mezzi e missionari che si uniscano a lui per tornare in Africa. Dopo aver constatato che si era fatto molto poco, Comboni va al Concilio ecumenico Vaticano a perorare la causa degli africani e prepara il Postulatum pro Nigris Africae centralis. È un documento in cui egli chiede che in questa solenne assise della Chiesa universale, venisse trattato il problema dell’evangelizzazione dell’Africa. Ma perché tale mozione fosse accettata occorrevano le firme di adesione dei Padri conciliari. Comboni si fece per questo ancora una volta mendicante per l’Africa e così cercò di esortare i Padri a farsi carico del grave problema: «Qui sono rappresentati tutti i popoli, i Cinesi, gli Indiani, i Giapponesi, gli Australiani, gli abitanti delle Isole di tutti gli oceani, […]; fra tutti i popoli ne rimane assente uno: è la Nigrizia, eppure Cristo è morto ed è risorto per tutti i popoli. Ecco dunque, Eccellentissimi Padri, dinanzi a Voi questa infelicissima Nigrizia, senza guida, senza luce, senza fede. Orsù, Padri, per il Cuore trafitto di Gesù Cristo, prendete su di Voi quest’opera. […] Vi supplico di far risuonare la vostra voce nel Concilio Vaticano». Ma nel 1870 a Roma ci fu la Breccia di Porta Pia e il Concilio fu sospeso. E Comboni si trova nuovamente solo, ma non desiste: delusioni, incomprensioni, fallimenti, morti di compagni di missione, lo hanno forgiato via via come apostolo libero dal desiderio di successo e ben addentrato nel mistero della croce.
 
E così Comboni ricomincia tutto da capo: dopo il Concilio Vaticano I si dedica a organizzare in Italia forze missionarie proprie. L’avvenire della missione in Africa centrale lo deve costruire lui con la sua gente e a Verona fonda due Istituti Missionari, uno maschile nel 1867 e l’altro femminile nel 1872, per l’evangelizzazione dell’Africa. Torna quindi a Khartum e organizza alcune missioni. Nel 1877, Roma riconosce l’immenso lavoro realizzato e lo nomina Vescovo e Vicario apostolico dell’Africa centrale. Comboni è ancora giovane e vigoroso, ha 46 anni, ma non gli resta che una manciata di anni da spendere e questi segnati da sofferenze morali, da tradimenti, da ignobili e umilianti calunnie che lo infangano, tanto che si convince che avere sposato la causa dell’Africa significa aver scelto la croce e scrive: «Da anni l’ho scelta come sposa eterna». E più tardi aggiungerà: «Mi sento un uomo crocifisso. Sono solo». E come Gesù sulla croce si abbandona al Padre: «Abbiamo lavorato per Dio, lasciamo a Lui la cura di tutto». E questo diventa il bilancio della sua vita: «O Nigrizia o morte», espressione, questa, della sua fede ardente. Fede in Dio, ma fede anche nell’africano, non tanto per quello che è, ma per quello che avrebbe potuto diventare se rinnovato dalla grazia, la cui gloria è l’uomo vivente. Comboni avrebbe voluto che la Chiesa facesse convergere tutte le forze di cui disponeva nel XIX sec., per aprire in Africa istituti professionali, scuole, università, seminari,… dove gli africani non fossero spettatori passivi, ma soggetti responsabili, veri protagonisti della loro storia di salvezza. Si trattava di abilitare l’Africa a lavorare per acquistarsi essa stessa la scienza, la tecnica, il Vangelo, gli strumenti dell’autosufficienza e dell’autogoverno: la coscienza della propria dignità. «Su questa idea si fissa il nostro pensiero – scrive nel Piano del 1864 – e la rigenerazione dell’Africa con l’Africa ci pare il solo programma da doversi seguire». Sono parole nuove, di un uomo che si è fatto africano tra gli africani e per questo sogna un’Africa aiutata da tutti i cristiani del mondo a realizzarsi come una comunità unita, padrona del proprio futuro. Saranno necessari cent’anni dal giorno del Piano, perché l’Africa cominci a esistere come Comboni l’aveva sognata, un insieme di popoli liberi e cristiani. Sarà Paolo VI nel 1969 durante il suo viaggio apostolico in Uganda, che a Kampala farà risuonare quasi le stesse parole di Comboni: «Gli Africani sono i missionari di se stessi».
 
Comboni fu un seme gettato nell’arido suolo africano. Morto là, ma che si perpetua in vita: «Io muoio, ma la mia opera non morirà». Lo dimostrano le numerose famiglie missionarie, in Europa come in Africa e in America Latina, che devono la loro origine, il loro essere nella Chiesa e nel mondo, al carisma e alla fede di Daniele Comboni, mistero di grazia, servo degli africani, loro Padre, Fondatore di missionari e missionarie per amore dell’Africa. Comboni ha saputo vendere tutto, la sua stessa tomba fu violata e le sue ossa disperse sul suolo africano, ma la perla nascosta nell’infuocato terreno africano venne una volta per tutte dissotterrata per brillare nel diadema della Chiesa. E la vitalità, le gioiose celebrazioni liturgiche, la creatività dei cristiani d’Africa, lo testimoniano. È dovuto a uomini e ad apostoli come Comboni se possiamo ormai far nostro l’invito che un poeta africano della Costa d’Avorio, Bernard Dadié, rivolge alla Madre Africa:
«Asciuga le tue lacrime, madre Africa.
I figli tuoi ritornano. A te ritornano.
Colme le mani di doni. Colma l’anima d’amore.
Ritornano per vestirti di speranze e di sogni».

Sia lodato Gesù Cristo.

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